E’ tempo di vendemmia, l’uva è maturata e tra una pioggia e l’altra questo fine settimana i miei vicini sono riusciti a vendemmiare. Quest’anno a malincuore non ho potuto partecipare perché ero alle prese con l’organizzazione del compleanno di Viola, che ha compiuto dodici anni il 10 di ottobre.
La vendemmia qui è una giornata di lavoro ma anche e soprattutto di festa, di incontro e di condivisione. I vicini e gli amici si riuniscono tutti per aiutare nella raccolta, tra i filari mentre si taglia l’uva si chiacchera del più e del meno, si spettegola, si canta, si ride e si scherza. Da quando mi sono trasferita qui al podere ho cercato sempre di partecipare, anche con le bimbe piccolissime, nella fascia o che a malapena riuscivano a camminare tra i filari, e adesso anche per loro la vendemmia è un giorno speciale.
Ma oggi voglio parlarvi delle vendemmie e delle vigne di una volta, quando qui nella campagna di Maremma i contadini erano ancora sotto a un padrone e quando M.,il mio vicino di 90 anni, era giovane.
Lascio la parola a lui, al suo racconto:
“La prima vigna che mi ricordo, quando ero ancora molto piccolo, era chiamata l’arboleto, perché le piante di viti erano arrampicate su filari di alberi. Alberi molto grandi che venivano tagliati all’altezza di un paio di metri. Per vendemmiare si saliva sull’albero con una scaletta di legno, fatta su misura, mentre i bigonzi di legno dove veniva raccolta l’uva stavano a terra.
Poi l’arboleto è stato tutto tagliato ed è stata fatta una nuova vigna, di fianco al podere, molto diversa da quelle che si vedono oggi.
Per fare la nostra vigna hanno scavato tante forme, fosse, profonde più di un metro, tutte parallele tra di loro. In queste forme hanno piantato le piante di vite domestica ed hanno messo una colonnina di quercia, segata a mano, di fianco ad ogni vite. Hanno riempito di terra la forma, ma non completamente, un po’ alla volta, così a mano a mano che la pianta cresceva si riempiva tutta la forma. Ogni pianta di vite era quindi appoggiata su una colonnina di quercia, su cui venivano fatti tre fori dove si inserivano tre pioli lunghi circa un metro. Quando si potava la vigna si lasciavano solo tre o quattro capi che venivano fissati sui pioli. Non c’erano fili che univano tra loro i pali come ora, quindi si poteva passare tranquillamente in mezzo ai pali e ai filari.
Tra un filare e l’altro c’era una distanza di almeno otto metri, perché dovevamo avere lo spazio per passarci in mezzo con l’aratro trainato dai buoi. La vigna poi si vangava a mano. In mezzo ai filari si seminavano i fagioli, i ceci, le lenticchie, perché erano delle piante basse che non davano noia, un filare della nostra vigna era dedicato alle piante di fragole e quando erano mature, dal nostro podere se ne sentiva il profumo. Da piedi e da capo del filare si mettevano degli alberi da frutto, ma ce n’erano anche in mezzo alla vigna, sui filari. C’erano le mele rugginose, prugni, viscioli, pere moscatelle, quelle che maturano presto per i primi di giugno, le ficaie bianche e nere e due ciliegi spettacolosi.
Quando eravamo sotto al padrone, la vendemmia si faceva a rotazione, un podere alla volta e tutti ci aiutavamo a vicenda. Alla fine di ogni vendemmia veniva il guardiano a dividere l’uva, metà spettava al padrone e metà a noi.
Durante la vendemmia raccoglievamo l’uva dentro ai bigonzi di legno, qui poi l’uva veniva affinata con gli affrattatoi, dei bastoni di legno fatti apposta. Di sera mettevamo l’uva raccolta nelle tine di legno a bollire, bisognava allora assicurarsi che la vinaccia fosse tutta abbassata, sommersa, altrimenti il vino diventa acido perché la vinaccia asciugandosi s’inacidisce. Di tanto in tanto andavamo a controllare, ma prima di entrare nella stanza dove c’era il vino a bollire facevamo la prova con la candela che non ci fosse troppo gas, se la candela si spegneva non si entrava perché altrimenti si rischiava di morire asfissiati.
Il mosto doveva bollire almeno quattro o cinque giorni e prima di svinarlo passavano almeno quindici giorni, mica come ora che si svina dopo una settimana. Si cavava (toglieva) il vino dalle tine e si portava nelle botti, con i bigonzi di legno. Per fare quest’operazione si usava una barella fatta come una scaletta con due pioli dove s’incastrava il bigonzo, bisognava essere in due per trasportarli.
Dentro alle botti il vino veniva controllato mediante l’apertura dotata di tappo che c’era nella parte superiore. Quando vedevamo formarsi un velo sopra al vino, voleva dire che aveva fermentato, che non si muoveva più e che era pronto, a questo punto allora si murava il tappo con la calce e il cemento.
Ma il lavoro non era finito qui, tra novembre o dicembre, si “governava” il vino cioè si aggiungeva dell’uva che si era conservata dalla vendemmia, la più bella che era stata messa a seccare in cantina sui pendoli. In questo modo si aggiungeva al vino della sostanza buona, dolce e alcolica e il vino riniziava a bollire. Fino a che bolliva il vino non si beveva, poi era pronto e si manteneva per tutto l’anno dentro le botti.”
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Spettacoloso racconto di memoria! Bisognerà poi assaggiarlo il vinello…per sapere com’è! Bacioni, salutaci M., noi si compravano carretti d’uva piacentina, si pigiava coi piedi, si metteva in enormi tini e poi, passato il tempo giusto si imbottigliava …la mia mamma con il mosto faceva un dolce inarrivabile: il “sugg”.
Ciao Cecilia grazie per la tua testimonianza. La ricetta del dolce di tua madre con il mosto ce l’hai ? Baci 🙂
Che belli questi racconti! mi ricordano la vendemmia che facevo con il mio nonno tanti anni fa…le bigonze, il tino, la candela con la quale si entrava in cantina.
I miei suoceri invece vendemmiano domani…mi sarebbe piaciuto partecipare ma il mio bimbo è stato malato e preferiamo restare a casa.
ciao
Silvia